Poco prima dell’estate scoppia una grana grossa nel settore. In pratica i buyer, a seguito dell’emergenza sanitaria e delle direttive diramate dal Governo, si trovano di fronte a due posizioni contrapposte. Da una parte le aziende che includono i saponi tradizionali fra i prodotti in esenzione Iva. Dall’altra quelle che sostengono che il decreto governativo si riferisce solo ai prodotti con funzione disinfettante e quindi classificati come presidi medici chirurgici.
Una grande confusione, con al fondo un problema: le aziende, nel primo caso, offrono un prezzo assolutamente più competitivo rispetto alle altre, vantando un differenziale di almeno il 22 per cento.
A fronte di numerose telefonate ed email delle aziende, decidiamo di investire della questione ben quattro enti: l’Agenzia delle entrate, l’Agenzia delle dogane, il ministero della Salute e quello dell’Economia. Siamo a inizio luglio. A Roma fa caldo, molto caldo. E poi c’è il virus. Gli uffici dunque sono vuoti. In teoria rispondono solo a comunicazioni scritte. Ma malgrado vari tentativi e solleciti, il silenzio è assordante.
Poi arriva agosto. E, come si sa, “agosto, lavoro mio non ti conosco”. Tutti al mare o nella frescura della montagna.
Solo a metà settembre l’Agenzia delle entrate si sveglia. Con la risposta n. 370, che specifica come l’esenzione sia in realtà appannaggio esclusivo dei prodotti con funzione disinfettante.
Apriti cielo! Si parla di 22 punti percentuali che – per mesi e per prodotti che sono andati a ruba in tempi di emergenza sanitaria – non sono entrati nelle casse.
Aziende e distribuzione devono ora capire cosa li attende. Di chi è la responsabilità di aver venduto prodotti senza Iva? In quale misura? A quale pena si va incontro? Ai posteri l’ardua sentenza.
Angelo Frigerio