Un’alta visibilità non sempre corrisponde a una piena fiducia. E ai grandi content creator da milioni di follower i più giovani tendono a preferire figure online di minor rilievo, ma più autentiche.

Di Annalisa Pozzoli

Il troppo stroppia. Quello che è uno degli strumenti marketing più usati (e abusati) degli ultimi anni – la comunicazione pubblicitaria più o meno esplicita che avviene attraverso blogger, tiktoker, youtuber, instagrammer e in generale content creator – potrebbe essere arrivata a un momento generale di stanchezza. O, come la definirebbero i tecnici, ‘influencer fatigue‘. Chiunque abbia un profilo attivo su un social media qualsiasi, viene bombardato quotidianamente da foto e video di prodotti, consigli per gli acquisti, unboxing, link che rimandano a store online e vetrine di Amazon. E molti utenti, specie i più giovani, iniziano a essere stanchi di questo tipo di comunicazione.

Una volta, l’influencer marketing rappresentava una valida alternativa al testimonial famoso, che veniva impiegato per il proprio seguito di fan, ma anche per il cosiddetto ‘effetto alone’, per cui si dà per scontato che una persona particolarmente bella o talentuosa sia altamente qualificata anche in altri ambiti, come la scelta dei prodotti da usare. Gli influencer, che hanno un enorme potere di comunicazione ma non sono ‘famosi’ nel senso più tradizionale del termine, offrono un’alternativa più accessibile. Sono abbastanza lontani dalle celebrità da permetterci di relazionarci con loro… finché diventano essi stessi delle celebrità, e la spontaneità viene meno. Spesso insieme alla relazione diretta con il proprio pubblico. Secondo un sondaggio condotto dalla società di ricerca Ypulse su giovani di età compresa tra i 13 e i 39 anni, è vero che gli influencer riescono ancora a orientare le decisioni d’acquisto, ma la loro enorme visibilità non porta necessariamente a una fiducia incondizionata nelle loro raccomandazioni.

Infatti, il 78% dei giovani consumatori concorda: “Mi interessa di più cosa compra un mio amico rispetto a cosa compra un influencer”. Anche perché la domanda è lecita: questo personaggio apprezza davvero il marchio, oppure i messaggi che trasmette sono esclusivamente per convenienza e domani cambierà idea come una banderuola? Inoltre, l’eccessivo numero di pubblicità nei contenuti degli influencer sui social media ha finito per lasciare molti giovani consumatori disillusi sulle loro raccomandazioni. Un sorprendente 61% degli intervistati dichiara: “Più pubblicità fa un influencer, meno mi fido di lui”. Ciò significa che i marchi che firmano contratti per produrre una quantità schiacciante di product placement e post sponsorizzati devono ricordare che esiste un delicato equilibrio tra contenuti promozionali e coinvolgimento autentico. Se quest’ultimo viene a mancare, l’intera comunicazione perde di efficacia, perché esiste limite al numero di prodotti che possono essere promossi da una persona prima che questa diventi meno credibile.

In definitiva, per il 44% degli intervistati, gli influencer non hanno più il potere di una volta, e l’era del personaggio stranoto che monopolizza gli eventi culturali e le sponsorizzazioni dei marchi potrebbe essere sul viale del tramonto. È in aumento, invece, la popolarità dei creator più ‘circoscritti’, che apparirebbero come più autentici e genuini, e con cui è ancora possibile creare una connessione. Tutto questo in uno scenario in cui la maggior parte dei contenuti pubblicati oggi non genera engagement (il 59% secondo la ricerca di NP Digital): sempre meno spesso i post vengono creati per divulgare informazioni o intrattenere il pubblico. Si tratta invece di contenuti pensati per catturare rapidamente l’attenzione, in un ambiente in cui si può saltare facilmente un video e scorrere velocemente alla ricerca del prossimo. È la fine di un’era?