La Germania da diversi anni non sta vivendo un momento positivo. E più il tempo passa, più la situazione del Paese e la sua immagine internazionale peggiorano.
Di Angelo Frigerio
‘Non ci sono più i tedeschi di una volta’: questo il titolo di un mio articolo del luglio 2017. Evidenziavo le difficoltà di una nazione, fra le più importanti e strategiche per il nostro export cosmetico, la cui immagine fatta di precisione, correttezza, professionalità si stava sbiadendo velocemente. Tre gli esempi: il Dieselgate, le difficoltà della Deutsche Bank, la telenovela dell’aeroporto di Berlino.
Il caso Dieselgate era stato forse il più eclatante. La notizia che la Volkswagen taroccasse il dispositivo dei gas di scarico delle sue autovetture negli Usa aveva destato sorpresa. Ma come, i precisini che si mettono lì a falsificare il software per poter superare le prove degli americani? Non esiste. Invece sì. Lo hanno fatto. E si beccarono anche una bella multa.
Che dire poi della Deutsche Bank? Ma non era forse una delle più solide banche al mondo e un modello per l’Europa? Con in pancia titoli derivati per 54.700 miliardi di euro, pari a 20 volte il Pil tedesco e a quasi sei volte quello dell’Eurozona, l’istituto era in grave crisi. L’Fmi (Fondo monetario internazionale) aveva descritto Deutsche Bank come l’istituto più rischioso al mondo. Nel 2015 aveva chiuso il bilancio con una perdita di 6,8 miliardi di euro.
Negli ultimi anni la situazione è migliorata, complice anche il rialzo dei tassi di interesse: l’istituto ha chiuso il 2023 con ricavi a quota 28,9 miliardi di euro, in crescita per il quarto anno consecutivo. Ma Deutsche Bank resta comunque un’osservata speciale in Europa e rimane l’onta di una banca, ai tempi, molto vicina al default.
Vogliamo parlare poi dell’aeroporto di Berlino? Una barzelletta, altro che la Salerno-Reggio Calabria. Concepito nel 1995 per dare alla capitale tedesca uno scalo degno di questo nome, il progetto iniziale contava di porre la prima pietra nel 2006, con un costo di 1,5 miliardi di euro e con la data di fine lavori fissata il 30 ottobre 2011. Ma viene aperto solo nel 2020 dopo una serie inenarrabile di errori di costruzione e una spesa finale di 25 miliardi di euro.
“Casi isolati”: commentò qualcuno. Neanche per sogno. Il problema era ed è sistemico. Oggi la situazione è ulteriormente peggiorata. Il voto del 1° settembre in Turingia e Sassonia con la netta affermazione delle due ali estreme della politica tedesca (Afd a destra e Bsw a sinistra) la dice lunga sull’umore della popolazione. Un voto che ha, di fatto, completamente delegittimato la coalizione di governo. Ma non è finita qui. È di questi giorni la notizia che la Volkswagen sta valutando la chiusura di una fabbrica con il parallelo licenziamento di migliaia di dipendenti. Ipotesi che ha fatto gridare allo scandalo il potentissimo sindacato Ig Metal. Che ha immediatamente ipotizzato uno sciopero generale in tutte le fabbriche del Gruppo. D’altra parte la casa automobilistica tedesca non ha molte alternative. Deve ridurre costi per dieci miliardi di euro entro il 2026. “Il clima economico è diventato ancora più difficile e nuovi operatori stanno entrando in Europa”, sottolinea l’amministratore delegato Oliver Blume, in un comunicato. “La Germania come sede di produzione sta perdendo terreno in termini di competitività”. Il riferimento, non troppo velato, è alle auto elettriche cinesi che, alla faccia dei dazi, invaderanno a breve il nostro continente al grido di: “Poca spesa, tanta resa”.
Insomma la Germania, locomotiva d’Europa, è diventata un biroccio trainato da cavalli stanchi e affamati, insieme ad un’altra nazione, la Francia, che arranca e il cui Esecutivo è in perenne formazione. Riuscirà l’Italia, i cui indici economici sono tutti positivi, a trarne un reale vantaggio? Al contrario, ci saranno invece ripercussioni sul nostro export cosmetico, che vede nella Germania uno dei più importanti mercati di destinazione?