A due anni di distanza dall’inaugurazione, torniamo al mall di Torino. Lanciato all’insegna della sostenibilità e firmato dall’imprenditore piemontese. Tra serendipity, rivisitazioni e chiusure.
Non un disastro come il Fico. E nemmeno come Eataly, che negli ultimi due anni è stato pesantemente penalizzato dalla pandemia. Il Green Pea, ultimo progetto imprenditoriale di Oscar Farinetti, non vive le problematiche economico-gestionali dei due fratelli maggiori, ma comunque non convince appieno. Partiamo dai numeri. “Il primo centro commerciale al mondo dedicato al rispetto per il Pianeta”, come si legge sul profilo Instagram del mall, è stato presentato alla stampa il 4 dicembre 2020 (e noi c’eravamo, con tanto di Ffp2). Mentre l’inaugurazione al pubblico risale al 9 dicembre.
Il progetto iniziale prevedeva 66 negozi, 1 museo, 3 ristoranti, 1 piscina, 1 spa e 1 club dedicato all’ozio creativo. Il tutto distribuito su 5 piani per 15mila metri quadri. La location? Proprio di fianco al primo Eataly aperto nel 2007 al Lingotto, nel capoluogo piemontese. “Ho scelto Torino”, dichiarava Oscar in occasione della conferenza stampa, “perché è vicina a casa, per scaramanzia (perché qui è sempre andato tutto bene), ma soprattutto perché è una città creativa, dove sono state inventate molte cose. E siccome si tratta di un’operazione di rinascimento, voglio pensare che questo periodo non sia una scelta sfortunata, ma una serendipity”.
In effetti, con ‘molta umiltà’, l’imprenditore ha fatto porre la nascita del Green Pea (e quella di Eataly) sulla time line delle maggiori invenzioni torinesi visibile dentro al mall. Affiancandola a grissini, gianduiotti, ‘bicerin’, vermut, nitroglicerina, televisione e automobili. E c’è chi (una visitatrice che abbiamo intervistato) allude pure a un’altra dimensione di Torino. Città che, per chi ci crede, è un concentrato di magia bianca e nera.
Ma, tornando coi piedi per terra, secondo i dati di Creditsafe, al 31 dicembre 2020, con meno di un mese di attività, il Green Pea realizzava un fatturato di quasi 979mila euro, per una perdita di 41.577 euro. Il primo vero bilancio annuale riguarda il 2021, e riporta un giro d’affari di oltre 6,66 milioni di euro (e su questa sequenza numerica la signora di prima potrebbe ricamarci per bene). Con un risultato ancora in perdita (-11.473 euro), ma in miglioramento. Purtroppo è ancora presto per conoscere i risultati del 2022, ma intanto la nostra visita, effettuata lo scorso martedì 22 novembre, è servita a farci un’idea dell’andazzo al Green Pea.
Tanto per cominciare, i visitatori incontrati sui cinque piani si contano con due mani. La versione sofisticata e sostenibile della Rinascente milanese è ben lontana dalla massa di gente che affolla lo store vicino al Duomo meneghino. Qui le corsie sono letteralmente vuote, salvo alcune rare eccezioni, e neppure il personale sembra poi così numeroso e presente.
Solo al terzo piano troviamo il dehors del bistrot quasi pieno per il pranzo. E in effetti la cucina regala piatti e menu di qualità a prezzi ragionevoli. Il ristorante stellato Casa Vicina sembra invece vuoto al momento della nostra visita.
Ma proprio a questo piano – che nel progetto iniziale doveva celebrare la Bellezza, della persona, dei sapori e del lusso – risulta più evidente che qualcosa non va… Là dove c’erano quattro concept store di alta moda e un laboratorio con prodotti per la cosmetica e il cura casa, ora le saracinesche sono chiuse. Coperte da pannelli con le scritte “Coming soon”, “Siamo al lavoro per sorprendervi! Presto tante novità” (e chissà da quanto tempo ci sono). Questo però non è il solo piano cambiato.
Al secondo non c’è più traccia della sfera Igoodi, la ‘fabbrica degli Avatar’ di Billy Berlusconi (figlio di Paolo e nipote di Silvio). Una struttura avveniristica per ottenere una copia virtuale di se stessi, da utilizzare per moda, wellness, medicale e social.
Al suo posto una modestissima ‘aula eventi’, con quattro tavoli e due sedie, per ospitare il calendario del ‘Green Pea Live’, con appuntamenti curati da personalità varie sugli argomenti più disparati: dalla colazione all’upcycling dei vestiti, dalle ricette alla sostenibilità. In realtà, tutto il piano del fashion ha subìto una grossa trasformazione. Innanzitutto abbiamo visto la parete dei tessuti ecologici, che nel 2020 era solo un grande spazio bianco.
Tutta l’area vendita, poi, è diventata un immenso open space di scaffali. Mentre nel 2020 la presenza di aziende era molto più rimarcata, grazie a postazioni brandizzate, chiuse e definite. Un format più modulabile, insomma, che permette di camuffare eventuali defezioni. La moda ha poi lasciato spazio anche a un piccolo comparto di prodotti per la bellezza e il cura casa, oltre che a libri e giochi per bambini. Decidiamo di fare qualche domanda. Una commessa ci dice che in questo periodo (che si avvicina al Natale) la frequentazione del mall, e soprattutto del bistrot, è maggiore (non osiamo immaginare allora gli ingressi degli altri mesi…). Fermiamo poi un visitatore per sapere se è assiduo frequentatore: “E’ la prima volta che vengo, con tutta la pubblicità che fanno di questo posto…”.
Durante il pranzo, invece, chiediamo a un gruppo di signore al tavolo: “Ho consigliato io di venire qui a mangiare insieme per la prima volta, dopo una mia prima visita di qualche tempo fa. Magari dopo facciamo anche un giro per negozi”. Evidentemente né la comunicazione, né la Member Card (del costo di 50 euro, rimborsati alla sottoscrizione con l’omaggio di una bottiglia di vino biologico di pari valore) riescono a creare uno zoccolo duro di clientela. Quello che invece affollava, lo stesso giorno, la vicinissima Eataly, facendoci percepire ancora di più il senso di vuoto provato nei corridoi deserti del Green Pea.
Insomma, nulla da dire sul nobile obiettivo del progetto, né sulla struttura e il suo mantenimento. Ma questo non sembra essere sufficiente per far decollare il format. Provaci ancora Oscar…