Si moltiplicano le iniziative ‘politically correct’ da parte delle aziende beauty. Ma è davvero così necessario?

Di Irene Galimberti

Unilever toglie la parola ‘normale’ dai prodotti personal care.

E’ solo l’ultima di tante iniziative che sbandierano l’intento dell’inclusività. Senza andare troppo indietro nel tempo, la scorsa estate – dopo la morte dell’afroamericano George Floyd per mano di un poliziotto statunitense – la stessa multinazionale, insieme ad altri big, quali L’Oréal e Johnson & Johnson, hanno annunciato alcuni cambiamenti, per mettere a tacere le accuse di ‘razzismo’. Da tempo, infatti, l’industria cosmetica è sotto pressione per la mancanza di inclusività dei prodotti, che non riuscirebbero a rappresentare una vasta gamma di tonalità e tipi di pelle, e sottintenderebbero che una pelle ‘chiara’ è in qualche modo più bella.

Messa alle strette, Hindustan Lever, filiale indiana di Unilever, ha scelto di ribattezzare la sua crema sbiancante ‘Fair & Lovely’: “Vogliamo che diventi un marchio che celebri la pelle luminosa e radiosa, indipendentemente dalla tonalità”. Il gigante francese L’Oréal ha annunciato la rimozione progressiva dai pack di parole come ‘white-whitening’, ‘fair-fairness’ and ‘light-lightening’ (bianco, sbiancante, chiaro, schiarente, luminoso, illuminante). Johnson & Johnson ha interrotto la vendita di creme sbiancanti per la pelle, tanto popolari in Asia e in Medio Oriente, dopo che tali referenze sono state criticate perché descriverebbero il colore chiaro o bianco della pelle come tonalità migliore: “Non è mai stata nostra intenzione, una pelle bella è una pelle sana”, la replica della multinazionale. La produzione della linea Clean & Clear Fairness è quindi stata dismessa in India, così come quella della linea Neutrogena Fine Fairness in Asia e in Medio Oriente.

Non solo. Nel 2019, a seguito di una petizione con oltre 23mila firme, Amazon ha interrotto la vendita di alcuni prodotti schiarenti, criticati per la natura intrinsecamente razzista. E ancora, qualche anno fa è stata lanciata una ‘battaglia’ internazionale contro il termine ‘antiage’, sostituito da alcuni brand con ‘longevità’, ‘proaging’ o ‘slowaging’.

Mi sia concessa una riflessione: non stiamo un po’ esagerando?

Sono cresciuta nel pieno rispetto di quelle che un tempo si definivano ‘diversità’. Tanto da non considerarle nemmeno tali e da essere sempre particolarmente sensibile verso queste tematiche. Adesso, per aver utilizzato questo termine, potrei essere insultata o tacciata di insolenza, se non peggio. Ma cosa ha a che fare la descrizione della funzionalità di un prodotto beauty, con il rispetto per il genere umano?!

Sono pienamente d’accordo sul fatto che le aziende debbano fare maggiori sforzi per soddisfare le esigenze di tutti i consumatori, ampliando tipologie di prodotto e gamme cromatiche. Ma se uno shampoo, per esempio, è indicato per capelli ‘normali’ (che non sono quindi né ricci, né lisci, né grassi, né crespi, né fragili), o se una crema è studiata per pelli ‘normali’ (che non sono quindi né grasse, né secche, né miste), dove starebbe il problema? Tutte queste categorie non sono certo insulti alla persona. Non vedo nulla di discriminante nel termine ‘normale’. Che fa riferimento a determinate caratteristiche per cui non sono richiesti trattamenti specifici. Non si tratta affatto di “ristretti ideali di bellezza”, come vengono definiti da Unilever, che sottolinea di lavorare “per aiutare a porre fine alla discriminazione e per sostenere una visione più inclusiva di bellezza”.

L’iniziativa, spiega la multinazionale, è conseguenza di una ricerca commissionata dall’azienda stessa, che ha raccolto il parere di 10mila persone: per 7 su 10 la parola ‘normale’ sulle confezioni avrebbe un impatto negativo, facendole sentire escluse. Siamo seri, non sono queste le esclusioni che contano nella vita.

A ben pensarci, per certi versi, a furia di calcare tanto la mano sull’inclusività, si finisce per rimarcare le diversità. Rimettiamoci alla saggezza dei proverbi: “Il mondo è bello perché è vario”.