C’era una volta una bella azienda fra le più importanti del nostro paese. Una casa editrice nota per i suoi libri di narrativa ma anche di saggistica. Numerosi gli autori nel suo portafoglio. Il business andava a gonfie vele. Bella la sede a Milano, interessanti le prospettive. Come pure i programmi editoriali. Ma, quando si parla di progetti, viene sempre alla mente un racconto yiddish. Un giorno due rabbini s’incontrano. Uno dice: “Sai, ho parlato con Dio dei miei progetti”. L’altro: “E lui che cosa ha risposto?”. “Si è messo a ridere”.
Spesso i sogni muoiono all’alba. Ed è proprio quello che è successo a quella casa editrice. Chi l’ha fatta fallire è stato il figlio. Alla morte del padre ha cominciato a gestirla insieme alla sorella ma, mentre la ragazza aveva delle idee, il delfino non ne aveva proprio. Non solo: gli piaceva andare in barca e tutti gli anni spendeva la bellezza di un miliardo di vecchie lire in regate che lo portavano in varie parti del mondo. In azienda non lo si vedeva mai e questo era anche una fortuna. Ma, alla fine, senza una guida, la casa editrice fallì miseramente. E’ la maledizione della terza o quarta generazione. Lo ha raccontato bene il comico Albanese, nei panni di un ricco industriale brianzolo: “Mio nonno ha costruito la prima fabbrichetta. Mio padre ha ampliato l’azienda. Io l’ho fatta diventare una multinazionale. Mio figlio si droga”.
Ma vorrei ritornare alla casa editrice. Perché è fallita? Un episodio lo spiega bene. Al compimento del 18° anno il padre regalò al figlio una Porsche Carrera. E qui c’è poco da aggiungere. Quando al raggiungimento della maggiore età il dono è quello di cui sopra, a 21 anni cosa gli regali? La Ferrari?
Ecco allora che il problema non è solo l’inconsistenza del figlio ma l’educazione che ha avuto. Il padre e la madre, in questo caso, lo hanno protetto e coccolato. Ma così facendo gli hanno spento i sogni. Hanno azzerato la sua tensione alla vita. Così, quando si è trattato di sfoderare la spada e andare in battaglia, il giovin signore ha avuto paura. Si è ritirato, mestamente.
Di recente ho avuto un bell’incontro con il titolare di un’azienda che lavora nel settore alimentare. Tre figli: il primo è un secchione. Frequenta una facoltà scientifica ed è destinato a una carriera universitaria. Il secondo invece ha terminato nel luglio scorso la maturità. Doveva decidere la facoltà a cui iscriversi ma poi non ne ha fatto nulla. Il padre l’ha portato in azienda con ottimi risultati. Il ragazzo lavora, è bravo, ma il papà vorrebbe che scegliesse una facoltà universitaria. Il terzo figlio invece non ha nessuna voglia né di studiare né di lavorare. Il papà è preoccupato. Teme fortemente per il suo futuro.
L’ho tranquillizzato. In fondo è la storia di Giacomo. Ha sempre avuto un percorso scolastico accidentato. Sin dalle elementari porta a casa numerose note della maestra. Una, fra le migliori: “Giacomo ha raccolto una rana in giardino e con essa fa spaventare le compagne di classe”. La mamma, maestra elementare con una laurea in Pedagogia, torna sempre piangendo dai colloqui con gli insegnanti. Il ritornello è il solito: “E’ molto intelligente ma non s’impegna e trascina tutti i suoi compagni”. Anche le medie non sono il massimo. 50 note in seconda, record storico mai raggiunto in quella scuola. Un nota bene: Giacomo non è un bullo. Anzi, tutti i compagni gli vogliono bene. E’ solo molto vivace. Soprattutto un leader, capace di coinvolgere la classe in scherzi ai professori o altro. Delle superiori meglio non parlare. Dopo un tentativo mal riuscito al liceo, la famiglia lo dirotta ai geometri ma non raggiunge il diploma. Come estremo tentativo viene inserito nell’azienda di famiglia, vicino a un grafico. Sboccia, è il suo mestiere. Dopo un breve periodo di apprendimento dice al padre: “Cosa facciamo?”. E lui: “Prima di comandare bisogna imparare ad obbedire”. Comincia così a lavorare, a Milano, in un’agenzia, passando da junior ad art director in nove lunghi anni. Poi lascia l’agenzia e ne crea una con la sorella Valentina. Oggi dirige un’azienda fra le più interessanti a livello internazionale. Sono in 50, tutti giovani e il 70% del fatturato è all’estero. Lo scorso anno, nel pieno della pandemia, hanno fatturato il 45% in più dell’anno precedente. Fra i clienti ci sono: l’Organizzazione Mondiale della Sanità, World Bank, Ducati, Yamaha, Sotheby’s. Giacomo, a scuola, in inglese aveva 4. Oggi gestisce lui i rapporti con l’estero. L’agenzia si chiama Blossom. Andate a vedere il sito www.blossom.it e giudicate voi.
Tutto questo per dire che il problema del ricambio generazionale sta anche nei genitori. Nel come “tirano su” i figli. Ricordando sempre che la miglior educazione è l’esempio. E che, comunque, la possibilità che un figlio/a segua il padre nel suo lavoro, con merito, è una fortuna. Non un obbligo.
Angelo Frigerio