L’Ufficio del Commercio Usa attacca la bozza del provvedimento varato dal nostro governo. “La Dst italiana incide gravemente sul commercio statunitense e lo limita”.
Di Andrea Dusio
Entra in questi giorni finalmente nel vivo la web tax all’italiana. Il 16 febbraio è infatti previsto il primo versamento della Digital service tax, secondo quanto previsto dalla bozza provvedimento di attuazione. La misura, però, continua a non piacere alle big tech, che la ritengono discriminatoria. Soprattutto alle piattaforme e-commerce, tra cui, una su tutte, Amazon. Sulle stesse posizioni sono le rappresentanze commerciali degli Stati Uniti nel nostro Paese. Introdotta nel nostro ordinamento con la Legge di Bilancio 2020 (anche se era prevista dall’anno precedente), la Dst va a tassare i ricavi che i colossi del web realizzano in Italia, per un gettito fiscale che nel primo anno doveva essere di circa 700 milioni di euro, e che probabilmente, a causa del Covid-19, porterà nelle casse dell’erario una cifra diversa. Parlando più sopra di ‘bozza’ intendiamo che il provvedimento attuativo non è stato ancora di fatto pubblicato, mentre si è conclusa la consultazione pubblica sul contenuto del provvedimento. Al dibattito sul testo di legge hanno partecipato con i propri pareri oltre 40 soggetti, tra cui naturalmente in primis gli operatori che verranno colpiti dalla nuova tassa, ovvero coloro che nell’ambito dei servizi digitali “realizzano ovunque nel mondo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, un ammontare complessivo di ricavi non inferiore a euro 750 milioni; e realizzano nel medesimo periodo, singolarmente o congiuntamente a livello di gruppo, un ammontare di ricavi da servizi digitali non inferiore a euro 5,5 milioni nel territorio dello Stato”. Nella bozza si stabilisce che “l’imposta si ottiene applicando l’aliquota del 3% ai ricavi imponibili realizzati nel corso dell’anno solare. A tal fine rilevano i corrispettivi riscossi nel medesimo periodo da ciascun soggetto passivo dell’imposta. I ricavi imponibili sono assunti al lordo dei costi sostenuti per la fornitura dei servizi digitali e al netto dell’imposta sul valore aggiunto e di altre imposte indirette”.
Il 6 gennaio, l’Ufficio del Commercio degli Stati Uniti e l’Ufficio Esecutivo del Presidente hanno pubblicato un report, frutto del lavoro della sezione investigativa 301, dedicato interamente alla Digital Service Tax italiana (il paper è disponibile a questo link). Il documento, che a oggi non ha avuto eco sui media del nostro Paese, giunge a tre conclusioni molto nette: punto primo, “la Dst italiana, per la sua struttura e il suo funzionamento, discrimina le aziende digitali statunitensi, anche a causa della selezione dei servizi coperti e delle soglie di fatturato”. In secondo luogo, “è irragionevole perché non è coerente con i principi della politica internazionale in tema di tassazione, anche per effetto dell’applicazione ai ricavi piuttosto che al reddito ed extraterritorialità”. E infine “la Dst italiana incide gravemente sul commercio statunitense e lo limita”. Il report sostiene che sono attualmente 43 le aziende o i gruppi che potrebbero essere soggetti alla Dst. Di queste, 27 sono statunitensi, 3 italiane e le restanti 13 di altri paesi. “In altre parole, il 62% sono americane, mentre quelle italiane appena il 6,9%”, si legge nel testo, che paragona il nostro modello di tassazione dei servizi digitali a quelli in vigore in Turchia e India.
L’Agenzia delle Entrate incassa le critiche e al contempo chiude ufficialmente la fase di audit, come sancito in queste ore da una nota che recita: “Le Entrate ringraziano tutti coloro i quali hanno inviato i propri commenti sul provvedimento, tenuto conto della complessità tecnica, della novità del fenomeno e della specificità del settore interessato. Degli oltre 40 contributi, circa la metà provengono da professionisti e studi professionali con attività internazionale, circa un terzo dalle associazioni di categoria rappresentative degli operatori e dei settori economici maggiormente interessati dall’applicazione dell’imposta e la parte rimanente dagli stessi operatori”.
La road map del provvedimento è insomma segnata. Il prossimo step, oltre alla trasformazione della bozza in un decreto attuativo, sarà una circolare che dovrà chiarire i punti su cui si sono concentrate le osservazioni durante la consultazione pubblica